Il fast fashion se da un lato è conveniente per il consumatore, dall’altro rappresenta un grande pericolo per il pianeta e il suo delicato sistema ambientale
Il fast fashion è la tendenza di molti brand di abbigliamenti di creare un certo numero di collezioni annuali, la cui caratteristica è il basto costo per il consumatore. Questo, però, se da un lato rappresenta un vantaggio per l’acquirente, che ha modo di aggiornare costantemente il guardaroba senza, però, spendere molto, dall’altro costa al pianeta e all’ambiente un prezzo altissimo.
Come analizzato da Enrica Amato, in un suo recente articolo, il fast fashion consiste nella produzione in serie di capi di abbigliamento in un numero tale da soddisfare sempre una maggiore richiesta. Questo ha un prezzo e a pagarne le spese è soprattutto l’ambiente, ma anche le persone. La maggior parte delle produzioni si svolge in paesi meno sviluppati, come il Pakistan, l’Indonesia, Marocco, Bangladesh, dove la manodopera, soprattutto infantile, vive una condizione di semi-sfruttamento.
Le aziende che producono fast fashion, inoltre, sfruttano altissime quantità di acqua, circa il 4% della quantità di acqua presente sul pianeta, a cui si aggiunge l’inquinamento per i rifiuti e i residui delle tinture e l’emissione di grandi quantità di gas serra.
Molte aziende di alta moda, da diversi anni, si stanno dando da fare per convertire le produzioni verso una pratica ecosostenibile, riducendo al minimo le emissioni e introducendo nuovi materiali ecologici, provenienti da fibre naturali. Tuttavia, la strada da compiere è ancora lunga, ma non mancano le iniziative e le azioni che i singoli cittadini possono mettere in campo. Tra le tante, c’è la possibilità di rimettere in commercio i capi che non si indossano più, attraverso piattaforme di vendita o scambio o negozi fisici dell’usato.